Carissimi,
dopo lungo silenzio desidero farmi presente a voi per condividere alcuni pensieri, legati al presente tempo pasquale e soprattutto allo stesso Mistero Pasquale continuamente rinnovantesi in noi.
Sono pensieri di quest’anno sabbatico a Roma (e dintorni), che mi stanno aiutando a confermare la scelta missionaria.
Non nascondo di aver faticato molto ad arrivare a questa decisione di tornare nelle Filippine, a liberarmi di un senso d’angoscia e timore legato alla prospettiva missionaria.
Ripercorrendo i più di sei anni passati là, pur riconoscendo di aver fatto un’esperienza umanamente bella e preziosa con frutti copiosi di apertura interculturale e di valori, ho però risentito pesantemente di una situazione dove nulla mi riusciva facile, spontaneo, ordinario e ho sofferto la nostalgia di una condizione dove potessi donarmi dalla sovrabbondanza del cuore e con la pienezza della mia umanità, invece di patire la povertà di grossi limiti e di una condizione di estraneità così contrastanti con le mie aspettative. Molti mi hanno detto (e me lo sono detto anch’io): “Perché soffrire, c’è tanto da fare qui in Italia; fermati qui che sei prezioso!" Due e più volte sono stato vicino a decidere di rinunciare alla scelta missionaria, confidando nella possibilità di essere missionario e di offrire la mia vita anche qui in Italia.
...nell’assenza di segni inequivocabili della volontà di Dio, perché ostinarsi ad un’impresa sentita spesso al di là delle mie forze?
Una sola considerazione mi ha alla fine convinto a ritornare alla scelta missionaria in Asia, senza togliermi comunque completamente il dubbio e l’insicurezza. Ben al di là delle aspettative dei confratelli e del dispiacere di rinunciare dopo aver fatto la fatica di imparare la lingua, mi ha convinto la sfida della fede, l’occasione unica che mi è offerta di scegliere con più consapevolezza la precarietà e la croce in un abbandono che sia fiducia in Dio, un atto di affidamento a Lui che solo può garantirmi integrità psicologica e fecondità apostolica in una situazione superiore alla mia capacità.
Ho pensato cioè che qui in Italia sarei stato molto più padrone dei miei progetti personali e delle mie iniziative. Là nelle Filippine sono solo un punto insignificante, incapace di progetti e scelte piene, dove la mia libertà è esercitata in orientamenti e scelte più contingenti e più faticosi da verificare.
Ma in fondo, non ho solo questa vita per vivere di fede?
Perché rinunciarvi?
Il vecchio Beppe cerca conferme di sé e affermazioni umane e religiose; il nuovo Beppe - pur interiormente sepolto da metri cubi di paure ed ambizioni - ripone la sua speranza di uscire alla luce solo nella umiliazione di tutto ciò che in me ancora si oppone all’opera dello Spirito perché si crei più spazio per una verità su di me più umile e pura.
Il vecchio Beppe desidera essere come un dio, capace di garantirsi il proprio destino e con certezze su cosa sia bene e cosa sia male; il nuovo Beppe è un bimbo sprovveduto, guidato da altri, che si dà con incertezza, che sorride o piange istintivamente al bene e al male senza saperli giudicare, che si lascia trattare un non-dio e attira con la sua sprovvedutezza l’affetto di Dio.
Il vecchio Beppe ascolta con convinzione una voce interiore un po’ arrogante che gli dice: “rispetta e fai rispettare i tuoi diritti. Sei o non sei come gli altri, o forse anche più?”. Il nuovo Beppe è attratto e interpellato da un Agnello pieno di mitezza e pace che si è fatto umiliare e crocifiggere dopo aver domandato con angoscia se vi fossero state alternative a quel destino, a quel passaggio.
Mi domando se sia stata offerta un’alternativa all’esilio dei profughi Kossovari e se la possibilità di scelta non sia stata altro che un lusso di un’aristocrazia, sconosciuta ai poveri della terra.
Il primo Beppe vuol far vincere il bene a gloria di Dio. Il secondo Beppe sa di non avere in sé nessun potere e medita la misteriosa impotenza di Dio che si sottomette all’arroganza del male per vincerlo.
In altre parole, l’esperienza dell’impotenza e del limite, del dolore e della solitudine che non si può evitare mi aiuta a capire che io non sono signore della mia vita e che le pretese del mio orgoglio sono infondate e fuorvianti.
Finchè io mi sento forte, capace e sicuro, sono cieco, incapace di vera fede e del dono di me stesso: sono ricco secondo il linguaggio evangelico. Solo quando sono povero, cioè ho rinunciato o più realisticamente sono forzato a rinunciare all’illusione della mia personale autonomia e capacità di reggermi sulle mie forze, allora posso consegnarmi alla guida amorevole di Dio. Morendo a sé stessi, diventa così possibile il miracolo della risurrezione, o meglio, di una vita che non dipende più da te.
Ritornando nelle Filippine mi sembra così di consegnare più chiaramente la mia vita a Dio, offrendo a Lui un segnale di disponibilità per la Sua opera, perché faccia di me quel che vuole.
Dalla esperienza precedente di missione mi viene il suggerimento che croce e notte oscura non siano solo sofferenza e morte, bensì la vita che guida alla luce e alla pienezza di vita. Spero intensamente che questa vita possa presto manifestarsi in me e che il mio e nostro destino siano solo pace e gioia.
Inutile dirvi che conto molto sulla vostra preghiera e che poveramente ma sinceramente vi offro la mia.
Nel Cuore di Gesù
P. Beppe Pierantoni
“Dove, Signore, dove saremo portati su questa terra noi non sappiamo, ma non dobbiamo nemmeno chiedercelo prima del tempo. Sappiamo soltanto che per coloro che ti amano, Signore, tutte le cose volgono al bene e che le tue vie vanno al di là di questa terra” (Edith Stein)